Lezione n.2: relazionarsi con il vicino di posto
Non ero capace di affrontarla e per questo la evitavo. Alcune volte accadeva che mi aspettasse affacciata al balcone. Allora io da lontano la scorgevo e iniziavo a rallentare il passo per potermi inventare una scusa plausibile pur di non salire e dovere giustificare le mie assenze. Mi sentivo così in colpa e mi facevo un po’ ribrezzo. Non credevo fossi capace di trattare così male una persona che mi aveva cresciuto. L’ultima volta che salii da lei, tutto era cambiato. Forse io ero cambiata, ma quel salotto non mi sembrava più così grande e quel balcone enorme che da piccola sembrava altissimo e irraggiungibile, adesso era diventato un banalissimo balcone.
Quell’atmosfera e quella magia della luce soffusa, che da piccola sembrava dovesse rivelarmi da lì a poco dei segreti mai detti, adesso appariva una normale penombra e quell’odore in casa, adesso mi sembrava odore di stantio, di muffa, di chiuso. Fu quando entrai in salotto e la vidi seduta china sulla sua sedia di vimini marrone scuro con il cuscino verde, ovviamente cucito da lei, ancora di fronte alla sedia vuota dell’amica minuta che mi venne una fitta allo stomaco.
Non fu un dejavù, ma più una fotogramma del passato inevitabilmente consumato dal tempo. Mi rividi piccola e seduta sul tavolo a cucire bottoni in quel silenzio e in quella penombra, mentre l’amica minuta cuciva gli orli e lei recitava il rosario. Solo adesso mi accorgevo che tutto quel cucire le aveva reso le dita curve e ritorte e che il tempo l’avesse invecchiata molto più precocemente di quanto in realtà fece crescere me. Allora capii che le cose erano cambiate. Mi sedetti nella sedia dell’amica e le raccontai la mia giornata a scuola.
Lei ascoltava con la sua solita aria serafica, mentre dava i suoi soliti punti al solito merletto. Quel pomeriggio le raccontai tutte quelle cose che avevo fatto in quegli anni, divincolandomi tra le parole e gesticolando nervosamente a tal punto da sentire solo la mia voce fare eco nella stanza insieme al tintinnio metallico dei tantissimi bracciali che avevo.
Lei ascoltava.
Io parlavo.
Il marito era sempre chiuso nel suo studio. Tutto era rimasto uguale. Solamente io ero cambiata. Quella fu l’ultima volta che io e lei parlammo, poi mi lasciò andare capendo la mia necessità di voler vivere e proseguire per la mia strada, come se l’avessi usata e poi gettata quando non mi servì più.
In realtà non fu esattamente così e lei lo sapeva bene, ma accondiscendente e con fierezza, come una vera nonna, si fece da parte.
Tra il silenzio di quella casa e i rumori dei miei sensi di colpa, le diedi un bacio sulla guancia, morbidissima e profumata e mi avviai alla porta che chiusi alle spalle.
Credo che ci dicemmo tacitamente addio o arrivederci senza un reale motivo.
Ero cresciuta, forse nel peggiore dei modi, ingrata ed egoista. Non me lo perdonerò mai e, ancora adesso, quando mi capita di cucire, ripenso a quei pomeriggi e mi viene un sorriso spontaneo pensando che anche io un giorno, chissà, forse sarò come la signora Orietta.
Quando partii per l’università non seppi più nulla della signora Orietta. Ogni tanto mia madre mi comunicava sue notizie, fino a quando non mi diede quella della sua morte. “E’ la vita” mi ripetevo, ma se avessi voluto tutta questa storia avrebbe avuto un finale diverso, invece preferii nascondermi dietro la fatalità e il susseguirsi degli eventi. Era molto più comodo così.
Ecco, la suora mi ricordava proprio la signora Orietta, ed io ancora una volta, invece di riscattarmi, ero stata maleducata ed egoista nei suoi confronti.
«Ah, ecco le valige» sussurrai davanti al nastro trasportatore.Così presi le valigie, le misi nel carrello, ma prima di dirigermi verso l’uscita, mi avvicinai alla suora e le chiesi «Madre, le serve un aiuto con le valigie? Posso accompagnarla al taxi?».
Mi rispose molto gentilmente e con lo stesso sorriso della signora Orietta, disse «No, grazie cara, ho le sorelle che mi stanno aspettando al di là delle transenne» e dandomi una leggera carezza sulle spalle si avviò velocemente verso l’uscita.
Ecco, avevo alleviato i sensi di colpa per averle risposto male prima sull’aereo e forse, in piccola parte, ma molto piccola, ebbi come la sensazione di aver chiesto nuovamente scusa anche alla signora Orietta.
Al prossimo lunedì
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